mercoledì 11 settembre 2013

Cile: un paese ancora diviso a 40 anni dal golpe

11 settembre 1973: i caccia bombardano il palazzo presidenziale di Santiago, l'assalto dei carri armati di Pinochet e l'uccisione di Salvador Allende. A ricordare il colpo di stato due cortei diversi. La difficile strada della riconciliazione nazionale
di rassegna.it
 (immagini di Carlo Ruggiero)
Cominciò all'alba dell'11 settembre 1973 con i caccia che bombardavano il palazzo presidenziale della Moneda di Santiago e la marina che si ammutinava a Valparaiso. Poi l'assalto dei carri armati del generale Augusto Pinochet che terminò con l'uccisione di Salvador Allende. Finiva così nel sangue l'esperienza democratica di 'Unidad popular' che aveva portato le sinistre al governo in Cile.

Oggi a Santiago del Cile, in occasione dei 40 anni del golpe, A ricordare il colpo di stato e la morte di Allende ci sono due cerimonie separate, una col presidente Sebastian Pinera, l'altra con l'ex capo di Stato e candidata dell'opposizione alle elezioni di novembre, Michelle Bachelet.

A parlare per prima è stata quest'ultima, durante una cerimonia al museo della Moneda, non molto lontano dal palazzo presidenziale della Moneda, dove a prendere la parola è stato invece Pinera. Due cerimonie, quindi, parallele e separate, che confermano come il Cile sia ancora oggi un paese diviso dalle ferite non del tutto rimarginate del golpe del '73.

“Nessuna riconciliazione è possibile se manca la verità e la giustizia”, ha sottolineato la Bachelet. Anche Pinera ha condannato, con determinazione, "le violazioni dei diritti umani. Non ci sono soluzioni davanti a tanto dolore. Sfortunatamente non possiamo resuscitare i morti né ritrovare i desaparecidos, ma dobbiamo fare quanto possibile per la riconciliazione". "Quello del '73 è stato un golpe che ha spezzato la nostra democrazia e che ha aperto la strada al regime. Ma non e' stato un golpe improvviso, bensi l'esito prevedibile di una lunga agonia e deterioramento della nostra convivenza civile", ha sottolineato, dando cosi' un'interpretazione diversa da quella della Bachelet.

Il ricordo di Allende, che secondo la versione ufficiale è morto suicida il giorno del golpe, è stato al centro degli slogan e di molti dei murales che sono stati dipinti in nove punti diversi del percorso della grande manifestazione che ieri ha attraversato le strade di Santiago. I testi facevano riferimento tra l'altro agli scomparsi ("Dove sono i desaparecidos?"), alla impunità e al 'patto del silenzio'.

"Il Cile non crede alla storia raccontata per anni. La giustizia, la verità e la memoria sono fondamentali per la costruzione di un Paese che si guardi in faccia", ha sottolineato la leader dei "Familiari dei prigionieri-desaparecidos", Lorena Pizarro. "Il perdono non vuol dire impunità. Non sappiamo - ha precisato Pizarro - dove siano i desaparecidos, così come non sappiamo chi siano i militari e i civili coinvolti nei crimini della dittatura". La marcia è stata pacifica, anche se alla fine della manifestazione ci sono stati degli scontri.

martedì 10 settembre 2013

G8 Genova, Cassazione: “A Bolzaneto accantonato lo Stato di diritto”

La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle"

G8 Genova, Cassazione: “A Bolzaneto accantonato lo Stato di diritto”
Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati imanifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiegaperché, lo scorso 14 giugno, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati.
La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedenteverdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”.
Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere laposizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo.
I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”.
Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione perdare sfogo all’impulso criminale